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MADE IN ITALY

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In questo periodo leggo spesso di discussioni linguistiche più o meno divertenti intorno al desiderio di ripristinare l’italiano per indicare concetti, espressioni e sentimenti che sempre più spesso vengono invece rappresentati in inglese, se non addirittura, in quelle forme di linguaggio del tutto nuove portate dalla globalizzazione e da Internet.

Ma quello delle lingue e dei reciproci “prestiti” è un tema molto antico e, come esperienza suggerisce, risulta assolutamente sterile quando tende a impedire il fenomeno della contaminazione. Lo sapeva bene già Dante che, nel suo De vulgari eloquentia, in un modo che a noi – erroneamente – può apparire paradossale, usa il latino per spiegare la bellezza della lingua volgare.

Se l’esempio appare troppo lontano nel tempo, mi rifaccio alla più inflazionata delle locuzioni inglesi, oggi utilizzata anche nel nostro settore, per esprimere l’eccellenza dell’italianità: Made in Italy. Colto meglio il paradosso? L’inglese per spiegare l’italiano. Un po’ come se si utilizzasse una fotografia a colori per rappresentare la magia del bianco e nero.

In questo caso, però, l’aspetto paradossale va spiegato con molta attenzione, perché questa formula è nata a suo tempo per esprimere a livello internazionale un significato preciso, autentico, onesto: l’origine geografica del prodotto. Già, ma non è mica così semplice: a partire da quel momento, con il nobile intento di impedire frodi, si sono susseguite leggi che, come spesso capita, hanno anche creato gli spazi entro i quali molti hanno trovato il modo di operare in modo equivoco.

Leggo, per esempio questa vecchia specifica: “Apporre la bandiera italiana, la dicitura Italy o Made in Italy su un prodotto è possibile per riferirsi alla parte imprenditoriale del produttore, mentre quella produttiva (manifatturiera, coloro che materialmente lavorano il prodotto) vera e propria può trovarsi ovunque”.

Ma ammettiamo pure che l’indicazione geografica corrisponda effettivamente alla realtà, cioè che quel determinato prodotto sia veramente “Fatto in Italia”: è sufficiente, questo, a garantirne la presunta eccellenza, dal momento che, soprattutto in quest’epoca storica, il suo progettista può essere svedese, i materiali possono essere cinesi, la mano d’opera può essere un misto di nazionalità provenienti da tutti i continenti?

Francamente non credo, anche se resto profondamente convinto che, davvero, una genialità, un’inventiva, una fantasia, un’estetica italiane esistano e siano riconoscibili.

È quel racchiuderle con superficialità in uno slogan che ormai leggo mille volte al giorno, come un jolly linguistico buttato in mezzo a frasi spesso senza senso, che non mi piace.

Corradino Corbò